La
questione dei RIFUGIATI nella
IIa guerra mondiale
Il grande apporto del Ticino e di Caritas
Di Alberto Gandolla
“Dalla discussione sul rapporto Bergier stanno emergendo sia gli errori della Svizzera nei confronti degli ebrei ma anche le esperienze di accoglienza di singoli cittadini, gruppi ed organizzazioni”
Ormai da vari anni anche la Svizzera ha dovuto fare i con-ti con il suo passato
e in particolare il dibattito sui fondi ebraici in giacenza presso le banche
svizzere e il ruolo della nostra nazione durante la seconda guerra mondiale
continua a suscitare vaste reazioni. Il Rapporto Bergier, reso pubblico il 10
dicembre scorso, dopo tre anni di lavoro, non ha potuto evidentemente suscitare
l’unanimità dei consensi. Critico con le autorità per la severa
politica adottata nei riguardi dei rifugiati e soprattutto degli ebrei, il rapporto
spiega questo atteggiamento basandosi sull’esistenza di un diffuso antisemitismo
culturale tra la popolazione. Qui il giudizio è pesante, anche se di
sicuro per avere un’immagine storica complessiva vi sono ancora elementi da
chiarire meglio. Per esempio: qual era il comportamento dei cattolici (un mondo
per altro variegato), quali le loro prese di posizione a proposito? L’antisemitismo
in Svizzera in quei tempi si confonde spesso con l’atteggiamento di chiusura,
di rifiuto verso gli stranieri, con il costante timore verso l’inforestieramento
che pervade (purtroppo) una grande parte della nostra storia contemporanea almeno
a partire dalla prima guerra mondiale. Certo la multiculturalità, il
federalismo e la moderazione e la costante ricerca del consenso a livello politico
del Consiglio Federale hanno impedito una generalizzazione del razzismo politico
in Svizzera (esistente solo nei gruppi frontisti, cioè filonazisti o
filofascisti). Eppure anche qui da noi stereotipi antisemiti tipo “gli ebrei
sono gli assassini di Gesù Cristo, vogliono conquistare il potere, hanno
in mano l’economia e tutti i grandi magazzini” erano molto diffusi e la vita
della piccola comunità ebraica svizzera, quasi 20mila persone, non doveva
essere molto facile.
La guerra e la politica nei confronti dei profughi
A partire dagli anni Trenta la Polizia federale degli stranieri assume il compito
di sorvegliare i lavoratori esteri e di controllare gli elementi “pericolosi”
(i nomadi, i comunisti, gli ebrei provenienti dall’est, ...). La tradizionale
e generosa politica umanitaria verso i profughi sempre più, vista la
“malizia dei tempi”, si fa restrittiva. Nel 1938, come noto, è richiesto
da parte elvetica un contrassegno (la “J”) sui passaporti degli ebrei provenienti
dall’Austria e dalla Germania, proprio per limitare al massimo l’ingresso di
queste persone. Gli ebrei non sono considerati dei rifugiati politici. Lo scopertine/coppio
della guerra fa inasprire questa già “prudentissima” politica. Nel mese
di maggio e giugno 1940 la situazione diventa delicata: la Francia si arrende
alle truppe naziste e la Svizzera è completamente circondata dalle potenze
dell’Asse. Cito un episodio significativo ma ignorato dai libri di storia -
ma non dai racconti dei nostri nonni - di questo grave momento, in cui si pensa
che la Svizzera possa essere invasa. Il giorno di Pentecoste a Waldenburg (BL)
una quindicina di persone affermano di aver avuto un’apparizione: il beato Nicolao
della Flüe che stende un suo braccio in cielo in segno di paterna protezione
della patria in quel momento di pericolo (cfr. Giornale del Popolo del 15 e
22.6.1940, articoli di don Leber). In ogni caso la politica d’asilo conosce
il massimo indurimento nell’agosto del 1942, quando molti profughi ebrei arrivano
alle nostre frontiere dal Belgio, dall’Olanda e dalla Francia. L’entrata è
ufficialmente proibita, salvo eccezioni per ragioni umanitarie: “la barca è
piena” afferma il consigliere federale von Steiger, quando in tutta la Svizzera
vi sono solo circa 10mila profughi. A partire dal 1943, nella misura in cui
i destini militari della guerra cambiano, le severe misure verso i rifugiati
vengono finalmente addolcite. Tra il 1939 e il ’45 sono accolti in tutto 51mila
profughi civili, di cui 21mila ebrei, e sono documentati circa 25mila casi di
persone respinte alle frontiere, ma il numero reale è certamente molto
più elevato.
Il grande impegno del Ticino e di Caritas
In Ticino per vario tempo la frontiera con l’Italia è meno “calda” di
quella della Svizzera interna, anche se dall’ottobre 1938 il regime fascista
introduce delle leggi razziali. Alcuni profughi sono ospitati in Ticino già
nel periodo 1939-42. L’assistenza ai rifugiati, tradizionalmente in Svizzera,
era affidata a organizzazioni private e quindi demandata ai vari enti in funzione
dell’appartenenza politica o religiosa dei profughi. Ricordo che nel gennaio
1942 si costituisce, con mezzi molto limitati, la Caritas diocesana ticinese,
con Francesco Masina (noto dirigente anche dell’OCST) come direttore; inizialmente
la sua attività è prevista essenzialmente per i poveri locali,
ma ben presto dovrà dedicarsi anche alla questione profughi. Come reagisce
quindi il mondo cattolico di fronte all’emergenza rifugiati? Gli studi storici
attuali sono lacunosi per quello che riguarda il periodo precedente al settembre
1943. Sembrerebbe che importanti ambienti cattolici - almeno il Giornale del
Popolo (vedi per es. gli articoli del 18.6.42, dell’11.8.42, del 28.8.42 e del
19.10.42) - abbiano inizialmente piuttosto condiviso la politica restrittiva
di rigida neutralità del governo nell’estate del 1942; poi si nota un
cambiamento. Nel mese di novembre 1942 l’Ufficio Centrale Svizzero di Soccorso
dei Rifugiati, con sede a Zurigo, decide di svolgere un’importante colletta,
con relativa campagna pubblicitaria di tre settimane in tutta la nazione. In
Ticino si forma un Comitato per l’aiuto dei rifugiati, con una ventina di membri
rappresentanti un po’ tutte le principali forze politiche. La presenza cattolica
è forte: il presidente è il consigliere nazionale Adolfo Janner,
inoltre vi sono per es. Francesco Masina, don Leber, don Del-Pietro. Masina
diventa il segretario del Comitato e la segreteria è situata nella casa
vescovile (e sede di Caritas) di via Nassa 66 a Lugano. La rispondenza della
campagna in Ticino risulta buona e costituisce un primo momento di solidarietà
effettiva. Ma il grande impegno del Ticino avviene a partire dall’8 settembre
1943, dopo che l’Italia firma l’armistizio con gli alleati che a sua volta determina
l’occupazione della penisola da parte delle forze armate del Reich: nel giro
di pochi giorni la frontiera ticinese è presa d’assalto da migliaia di
profughi militari, civili, ebrei. Riprende l’attività il Comitato formatosi
nel novembre precedente, e subito dà il via a una grande opera di aiuto.
Anche il governo ticinese in prima persona si impegna a soccorre la fiumana
di bisognosi, tra i quali molti ebrei, e contatta von Steiger per poter agire
in modo più largo delle severe disposizioni ancora in vigore. Se l’impegno
dei socialisti e delle altre forze laiche è notevole, il mondo cattolico
non è certo da meno e tramite Caritas, la Casa del Popolo gestita dall’OCST
e direttamente anche la Curia (con in primis il vescovo Jelmini ad assumersi
responsabilità personali; da ricordare anche la preziosa attività
del giovane cappellano militare don Cortella!) opera in modo generoso e differenziato
un aiuto diretto a rifugiati non solo cattolici. I bisogni dei profughi, installati
in campi o dimore particolari, sono certamente materiali ma anche morali e spirituali.
Altro momento importante di aiuto è quello di un anno più tardi,
in occasione dei i fatti dell’Ossola, quando molti partigiani ma anche intere
famiglie devono rifugiarsi nel nostro cantone. Questa volta il momento politico
è però teso e fra i vari gruppi ticinesi di aiuto vi sono anche
alcuni contrasti ideologici. Caritas comunque si occupa in questo frangente
soprattutto dell’assistenza dei bambini raccolti negli appositi campi. Gli ultimi
mesi di guerra sono poi evidentemente molto difficili per la popolazione italiana,
stremata dagli anni di conflitto. La Confederazione decide di stanziare un’importante
somma per aiutare le popolazioni vittime della guerra nelle nazioni confinanti,
mettendo a disposizione denaro e derrate alimentari a enti assistenziali. Caritas
Ticino prende al balzo questa occasione e costituisce una sezione Aiuto all’alta
Italia che il 1. marzo 1945, in collaborazione con altri dirigenti del mondo
cattolico, propone con un appello pubblico la sua azione di aiuto. All’interno
del Dono Svizzero alle vittime di guerra, Caritas e altre associazioni assistenziali
(Soccorso Operaio Svizzero, Croce Rossa, ...) dall’estate del ’45 alla fine
del 1947 compiono un’importante opera di soccorso. Con soddisfazione Masina
può affermare che la nostra Caritas diocesana, per esempio, tramite quasi
50 fra collaboratori e volontari riesce a soccorre più di 220mila persone.
In definitiva, pur mancando ancora una serie di analisi storiche, io credo che
il bilancio di aiuto del mondo cattolico ticinese in tempo di guerra sia positivo.
Forse meno i primi anni di guerra: l’emergenza alle nostre frontiere non vi
era ancora, mentre restava il classico conflitto ideologico con i socialisti;
ma in seguito, quando il bisogno diventa evidente e incontrabile, l’aiuto ai
rifugiati è generoso ed esteso. La memoria di queste opere deve esserci
di stimolo critico anche per il presente.